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mercoledì 26 febbraio 2014

Mary e Julia

Sulle canzoni dei Beatles è stato detto e scritto tutto e il contrario di tutto.

Che senza droga non sarebbero mai nate
che uno era il Mozart e l'altro il Salieri (ma scusate, non erano in quattro?) della situazione
che Hey Jude è stata scritta per Julian, il figlio di John
che Something è stata scritta per Patty, la moglie di George
che Lucy in the Sky with Diamonds non era altro che una compagna di scuola di Julian e che lui l'aveva ritratta in un disegno
che Yesterday è arrivata dormendo, in sogno, tanto che l'autore pensava di averla copiata da qualcun'altro, perchè sentiva di "conoscerla già"
che se non fosse arrivata Yoko chissà cos'altro avrebbero scritto...

e via, potrei dirvi altre mille storielle.

Qualcosa è vero, qualcosa no. Qualcosa alimenta belle leggende, qualcosa il mito.

Io da romanticona credo ad un paio di canzoni diversissime, nei suoni, nelle parole e  anche nel destino, ma ugualmente cariche di significato.

C'è una canzone che all'inzio venne  giudicata male dal gruppo, perchè sdolcinata e con poca sostanza, una canzone in cui McCartney, in un periodo di confusione e tristezza, sente avvicinarsi sua madre con saggi consigli, una mamma mancata troppo presto, quando lui era poco più che un bambino, una mamma presente, una mamma non più giovanissima

 "...mother Mary comes to me, speaking words of wisdom, let it be". 

Eccola, la canzone sdolcinata, la canzone che all'inizio non piaceva e non convinceva, una canzone che rivela nient'altro che il bisogno di una parola di conforto, perchè c'è un angolino di noi in cui siamo ancora bambini, siamo ancora orfani e soli. E decidiamo di mostrare il fianco, svelando tutta la nostra debolezza.
Se non la loro più famosa canzone, sicuramente una delle, forse anche a causa di quel vago sentore di testamento musicale che le è stato appiccicato addosso in quanto title track dell'ultimo album del gruppo.
Una canzone rimasta cristallizzata, senza tempo; poco importa che qualcuno ci legga riferimenti religiosi e qualcun'altro alla droga. Resta un pezzo di pochi minuti con un intro di piano inconfondibile e una melodia che oguno di noi, credo, sente un pochino sua, perchè ci gira nelle orecchie e nella testa da quando siamo nati.

L'altra canzone è contenuta nel fantastico album The Beatles, meglio conosciuto come White Album, un doppio disco gonfio di ispirazione, di esperimenti, di suoni sia delicati sia ruvidi.
Quasi nascosta tra le tante tracce così celebri e rappresentative, c'è questo pezzo vellutato, ipnotico, quasi sussurrato, in cui John Lennon parla direttamente con sua madre, Julia. Una mamma assolutamente imperfetta, con problemi di alcol e una vita breve. Un mamma che nonostante tutto lui tenta di raggiungere, con la sua canzone. Una donna che è luce, sabbia, nuvola e che è ovunque, ma che pare inafferrabile, ma che riesce a dargli voce quando il suo cuore non sa più parlare.
E in una strofa lui la chiama "ocean child".
Sapete come si traduce ocean child in Giapponese? Ve lo dico?

L'amore non andrebbe mai incasellato, giudicato.

lunedì 24 febbraio 2014

Licenza poetica

La musica mi ha dato una grande mano, nella vita.

Anglofona per vocazione, ammetto di non aver mai amato la musica italiana, se non in rarissimi casi, ho quindi iniziato fin da bambina a masticare i suoni della lingua inglese, sviluppando la curiosità di poter comprendere cosa dicessero i cantanti tramite quei suoni, che a me allora sembravano così musicali, così adatti, così indissolubilmente legati alle note che accompagnavano.
Un giorno la mia amica Daniela mi disse: "Ci pensi, tra qualche anno capiremo tutto quello che dicono". Potevamo avere 8 anni io e 9 lei, eravamo a casa sua, in salotto e stavamo ascoltando "A hard day's night" dei Beatles, quando il mondo non aveva orecchie che per la diatriba Duran Duran o Spandau Ballet. Due bambine strane, insomma, con pensieri insoliti.

Daniela mi diede l'idea. Da allora ho cominciato a cercare i testi scritti delle canzoni che ascoltavo e questo mi aiutata moltissimo ad associare i suoni indisitinti che sentivo ad un aspetto grafico, visivo. Mi ha aiutato a capire le differenze e le difficoltà dei suoni di lingua così diversa dalla mia.

E fu così che due passioni cominciarono a camminare di pari passo.

In questo cammino tutt'altro che concluso, mi sono imbattuta in due colossali strafalcioni, che però preferisco definire licenze poetiche, due casi in cui due illustri gruppi del panorama musicale mondiale si sono esibiti in errori da riga rossa. Se insegnassi inglese, certemente li segnerei.

Il primo è nel testo della celeberrima "Another brick in the Wall", dei Pink Floyd, in cui il buon Roger Waters scrive:

We don't need no education
We don't need no thought control

La maestrina che c'è in me ricorda che si potrebbe dire
We don't need any education
We don't need any thought control
oppure
We need no education
We need no thought control
ma sicuramente ciò che viene cantato presenta un errore.
Roger tranquillo, primo non insegno, secondo ti perdonerei questo ed altro.

Ma veniamo ad un insegnante vero: Sting.

Con i mai abbastanza rimpianti Police, cantava

Every little thing she does is magic, every little thing she do just turns me on

Sting sa meglio di me che She con Do proprio non ci può stare, ma nella strofa stava molto, molto meglio, quindi anche lui, perdonato.

Ora la mia testa sa di conoscere altre licenze poetiche simili a queste, ma in questo momento proprio non vogliono tornare a galla. 
Voi per caso ne ricordate?

sabato 22 febbraio 2014

E questo nome?

Sono vissuta tormentata da un paio di frasi.

La prima è: "Oh, poverina, hai perso l'anno!".
Questa frase veniva pronunciata dalla vecchia arpia/amica di mia nonna di turno, quando mia nonna rispondeva alla domanda (già di per sè indiscreta se posta ad una giovane donna) su quando fossi nata.

Oh sciagura! Oh jella nera! Oh sfiga suprema! La bambina è nata a gennaio! Santi numi, HA PERSO L'ANNO. (Segue espressione di infinito rammarico).

Eh?
Cos'è che avrei perso? E quando? Non me ne sono accorta? Io non ho perso un bel niente!
Di fronte al mio stupore, ogni volta più incazzoso, mia nonna ha poi deciso di spiegarmi che secondo queste megere io, se fossi nata solo 26 giorni prima, sarei nata l'anno prima, quindi sarei andata a scuola un anno prima. Invece così, povera tapina, per soli 26 stramaledetti giorni, ho perso l'anno.

Ma che incredibile cazzata. Con tutto il rispetto, credo che l'anno sia stato guadagnato, non perso.

Ma sto divagando.

Seconda frase del tormento.
"Peccato che tu non abbia gli occhi verdi!"
Ecco, questa me l'hanno detta in tanti, uomini e donne, grandi e piccini.
Ma che ci posso fa'?
Cosa devo fare se voi tutti supponete che coi miei capelli, se avessi avuto gli occhi verdi sarei stata uno schianto (per usare un termine gettonatissimo nei doppiaggi, ma mai utilizzato da essere vivente su questa terra) e invece con gli occhi marroni sono quasi un cesso?
Ho gli occhi marroni, marronissimi, quasi neri. No no no, non nocciola, direi...ebano, per tirarmela un po'. O forse wengé, è più trendy.

Ed eccovi servito il nome del blog.

Poi, in realtà, esiste una vecchia, acerba, un po' sgangherata, ma promettente canzone intitolata proprio così. La cantava Van Morrison.
Se volete piombare di colpo nell'Irlanda degli anni 60 (non so, a dire il vero, quanto fosse un luogo raccomandabile), andate a fare un giro su youtube!

venerdì 21 febbraio 2014

Episodio I

Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, una bambina molto perspicace, comprende fin da molto piccola (tre? quattro anni?) che musicalmente parlando sarà più saggio imparare dal papà, che le fa sentire bellissimi pezzi - musica che le dà la sensazione di pulirle le orecchie, di metterle le ali ai piedi, di alleggerirle la testa ed assecondare la sua forte propensione ai sogni - piuttosto che dare ascolto alla mamma, che millanta gusti sopraffini, ma poi si esalta per un tal Gianni Morandi e sa appena, ma non sempre, distinguere i Beatles dai Rolling Stones.

Già, perchè il papà, forte di uno stereo di tutto rispetto (siamo nei primi anni 80: non è un oggetto che tutti abbiano in casa), le fa ascoltare musica di ben altro livello, senza nulla togliere al sopracitato Morandi, che probabilmente ha in casa un ritratto di se stesso che invecchia in vece sua.

Papà le fa toccare quei meravigliosi dischi neri con il centro di carta colorata ognuno in modo diverso. Sono profumati (lei li annusa sempre) e delicati; lui le permette di adagiarli con cura sul piatto e di passar sopra il panno per togliere la polvere. L'aiuta ad alzare la puntina e a posizionarla al punto giusto. E poi si sente quel tac, quel tac sporco e scricchioloso, perchè per quanto si passi il panno, la polvere torna sempre.
Ed eccolo lì, quel magnifico oggetto rotondo, eccolo lì che comincia la sua danza circolare.
Se lo osservate bene da vicino, mettendo gli occhi a livello del piatto, vedrete che balla davvero, una danza elegante e sinuosa, accompagnata dalla sua stessa musica, mentre la puntina pian piano, lo abbraccia sempre più stretto.

Questa bambina allora che fa? Corre in camera dei suoi, fruga nei cassetti di mamma e ruba una vecchia camicia da notte azzurra, che per lei è enorme. Se la infila, torna dal papà e davanti a lui si mette a ballare.
Chiude gli occhi e la sua testa vola, accompagnata da quelle potenti note, che la rendono leggera e invisibile, coraggiosa e libera.